Asprilla: “Osio e Apollini fratelli, a Scala non ho mai perdonato…”

L’attaccante colombiano del Parma protagonista di un’intervista a La Gazzetta dello Sport: “Con il mio primo stipendio comprai cento rubinetti. Erano dorati”

Faustino Asprilla, funambolico attaccante colombiano, tra decine di capriole di esultanza e mille serate in giro per i night dell’ Emila, si prese le prime pagine dei giornali e l’amore della gente che, per lui, provava un istintiva simpatia. Erano gli anni Novanta. Lui giocava nel Parma di Nevio Scala, quello che vinse la Coppa delle Coppe a Wembley nel 1993, la Supercoppa Europea nel 1994 e la Coppa Uefa nel 1995,

Oggi Tino vive in Colombia, a Tulua Valle. Gestisce la sua “fazenda”, alleva cavalli, coltiva canna da zucchero che vende al governo e non si fa mancare notti da favola accanto a qualche bella ragazza. «Sono un single incallito – dice a La Gazzetta dello Sport -. Questa è la mia natura, che cosa posso tare?».

I RUBINETTI – «Cento rubinetti. Li andai ad acquistare in un centro commerciale a Parma e li spedii in Colombia. Erano dorati, meravigliosi. Gli amici che li ricevettero credettero che fossero d’oro puro. E io, così, mi feci la fama di un ragazzo che in pochissimo tempo era diventato ricco».

SCALA – «Parlava di tattica e io non capivo nulla. Avevo bisogno del pallone per divertirmi, per correre, per superare l’avversario. Figurati se m’importava del 3-5-2 o delle marcature a scalare. Un giorno Scala mi chiese di correre intorno ai bastioni della Cittadella. Gli lanciai contro le scarpe e gli dissi: “Non sono mica Forrest Gump, io faccio il calciatore. E me ne andai dallo spogliatoio».

FRATELLI – «Parma mi conquistò subito. Abitavo in un appartamento del centro della città. Ero solo perché mia moglie Catalina era rimasta in Colombia. Non sapevo cucinare, mi facevo delle bistecche che puntualmente bruciavo. Poi i miei compagni ebbero pietà e cominciarono a portarmi fuori a mangiare. Osio e Apolloni diventarono le mie guardie del corpo. Per me erano come fratelli».

ESCOBAR – «La mia cessione? Di sicuro Escobar aveva a cuore il Nacional Medellin e all’epoca non si taceva nulla senza il suo consenso».

WEMBLEY, ECCO PERCHÉ NON HO GIOCATO – «Scala volle punirmi, non gliel’ho mai perdonato. lo tornai in Colombia, era morta mia madre. Restai qualche giorno a Tulua e partecipai anche a una festa cittadina. Ero un po’ alticcio, lo ammetto, e fui coinvolto in una rissa di strada. Diedi un calcio alla portiera di un pullman, mi feci un taglio sul polpaccio, finii in ospedale. Quando rientrai a Parma mancavano pochi giorni alla partita, riuscii a rimettermi in piedi, ma Scala volle punirmi per quella bravata e restai in panchina tutta la partita».

GOL AL MILAN – «Non dimentico nulla, nemmeno che Scala non voleva che calciassi quella punizione. Dalla panchina urlava: “No, Tino. No, Tino”. lo me ne fregai, partii e disegnai una palombella fantastica. Sebastiano Rossi non si mosse. Gol! Feci la capriola ed entrai nella storia: con quella rete avevamo battuto gli Invincibili. In Colombia la vittoria del Parma fu la prima notizia del telegiornale: ero un eroe».

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