Giannini: “Gasperini has been able to combine total game, athleticism and technique. Future at Roma? Guarantees will be needed.”

AS ROMA NEWS – Former historic Roma captain Giuseppe Giannini gave an exclusive interview to today’s edition of Gazzetta dello Sport, talking mainly about the possible arrival of Gian Piero Gasperini on the Giallorossi bench. These are his words.

Giuseppe Giannini, you know the Giallorossi environment like few, and Gasperini, at the moment, is a coach who divides the Giallorossi fans: would he be the right choice?
“But I believe that the past rifts, misunderstandings or statements of the coach that might have bothered Roma fans would eventually go by the wayside. In the event that Roma were to make Gasperini’s name official, all the past would suddenly be overcome. As has already happened in so many other cases. The Atalanta coach is the coach of the moment, he is in vogue, and it is normal that a major club like Roma would look at him with interest.”

What do you think is Gasperini’s most important asset?
“The strength of ideas. Even when he led the Juventus Primavera team he gave the team a precise physiognomy, playing even then with the 3-4-3 form. He has precise convictions in his head and has always carried them out. In addition, he is a coach who has done a lot of apprenticeship, has coached around Italy and has always been able to combine total play, athleticism and technique. Not an easy mix. He has an iron fist but he also understands the human aspect of the player. His results at Atalanta, after all, speak for him. For a club like Roma that aims to develop young players for the future, Gasperini seems to me a logical choice.”

What difficulties might he face anyway, Gasp, in an ambitious and very demanding square like the Giallorossi?
“There is no lack of pressure in Rome, we know that. And it applies to everyone. That’s why it would be important, in case he arrives, to give Gasperini precise guarantees: especially in the first months of work with a view to a multi-year project. And precisely because the coach’s soccer is a concentration of great physical strength and high-level technique, he will also have to be put in a position to choose his players, indulging him in every way.”

Source: Sports Gazette

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Pizarro ha raccontato che suo papà portava da mangiare per tutti.
“Mio padre era amato da tutti, arrivava alle 9 e cominciava a portare le tielle di pizza con la mortadella, rossa, ripiene, con la porchetta. O al bar o dentro la sala dei fisioterapisti. Noi per andare al campo passavamo tutti di là, quindi la maggior parte dei giocatori prima di scendere in campo per gli allenamenti mangiavano 1-2 pezzi di pizza. Ogni giorno aspettavano mio padre che arrivasse a Trigoria. Anche gli usceri di Trigoria erano innamorati di mio padre. Lui era un buono, lo soprannominavano ‘lo sceriffo’”.

Le è capitato di tornare a Trigoria, quando accompagnava suo figlio?
“Ora Christian ha cambiato squadra, ma ogni volta che lo portavo a Trigoria ad allenarsi lo lasciavo lì davanti e andavo via. O aspettavo al terzo cancello, fuori, come tutti i genitori degli altri ragazzi. Non sono più entrato, da quel giorno”.

Su Nesta.
“E’ un altro pezzo di Roma, cugino diciamo. Nel periodo calcistico non ci siamo mai frequentati, anche perché non era rispettoso nei confronti delle tifoserie. Prima erano altri tempi, non come ora che farebbe effetto ma nessuno gli direbbe niente. Noi eravamo i due capitani e le due bandiere, non era proprio ben visto. Alla fine non avremmo fatto niente di male. Roma è bella anche per questo. Abbiamo trascorso tutte le trafile dal settore giovanile alla Nazionale, abbiamo vinto un Mondiale insieme. Lo reputo uno dei giocatori più forti al mondo in quel ruolo”.

Quale è la prima azione di Totti al derby?
“Quando sono entrato da giovane, mi fece entrare Mazzone. Presi il rigore con Paolo Negro. Mazzone mi aveva detto ‘entra e divertiti’. Ero giovane, non avevo tanti pensieri. Man mano che andavo avanti erano derby pesanti, che non volevi mai perdere. Anche lo sfottò era pesante. I derby erano belli anche fuori dal campo, non solo in campo. Prima si parlava di quella partita già da 2-3 mesi prima, tanti tifosi preferivano vincere i due derby invece che lo Scudetto. Io preferivo lo Scudetto”.

Il suo più grande rivale da calciatore?
“Per me non ci sono avversari, rivali. Fondamentalmente ci conoscevamo tutti, chi più e chi meno. In quei 90 minuti odiavi anche Nesta, ma al triplice fischio tornavi ai vecchi tempi. Personalmente la parola ‘rivale’ non mi è mai piaciuta. Ai tempi miei c’erano signor giocatori, in tutte le squadre”.

Il difensore che l’ha messo più in difficoltà?
“Non c’è uno in particolare, ma c’erano certi cani… uno ti alvaza e uno ti rinviava. Prima prendevo delle belle stecche”.

Sul rigore contro l’Australia ai Mondiali 2006.
“Non dico che ci ha consacrato, ma è quel calcio di rigore che dopo aver segnato abbiamo detto ‘arriviamo fino alla fine’. E’ stata una partita un po’ particolare, eravamo rimasti in 10 per l’espulsione di Materazzi. Se fossimo andati ai supplementari non so come sarebbe andata, l’Australia era una squadra compatta e con bei giocatori. Quel pallone era un macigno, dopo aver segnato abbiamo capito che potessimo vincere il Mondiale. Ricordo di aver fatto 70 metri infiniti per arrivare al dischetto. Ho pensato ‘mo gli faccio il cucchiaio’. Poi mi son detto ‘lascia perdere’. Parlavo tra me e me, come fossi un matto: cercavo delle risposte che non riuscivo a darmi. Il portiere era bello grosso, prendeva quasi tutta la porta. Ho detto ‘lo tiro come al solito, forte e in alto, come va va’. E’ andata benissimo”.

Aveva fatto di tutto per andare a quel Mondiale.
“Per me è stato un Mondiale ad alto rischio, 3-4 mesi prima avevo avuto un bruttissimo infortunio alla caviglia e c’era una grande possibilità di non poterlo giocare. Con forza, determinazione, voglia e lo stimolo di mister e compagni mi ci sono messo e ho spinto sull’acceleratore per poter essere tra i 23”.

Come avrebbe tirato il rigore contro la Francia?
“Uguale a quello contro l’Australia. Da un lato ero contento di non tirarlo, ogni tanto qualche responsabilità te la tieni. Se fossi stato in campo avrei tirato e così, sicuramente. Avevamo fatto la semifinale con la Germania con i tempi supplementari, giocati tutti: è stata tosta. Di fronte in finale avevamo la Francia, i principali vincitori. Era una bella lotta, anche noi eravamo una grande squadra. Era una finale giusta, infatti è andata ai rigori”.

Mister Lippi lo sente ancora?
“Sì, lo sentiamo e ogni tanto organizziamo qualche cena con tutta la squadra. Ci ritroviamo, sono quelle cose che non potrai mai dimenticare. Siamo uniti per sempre, abbiamo ancora la chat di squadra. Non conviene entrarci. Scrive chi non ha niente da fare, ma fanno quasi tutti gli allenatori quindi qualcuno stuzzica. E’ divertente. Ci siamo tutti, tranne il mister”.

Sul pallonetto da record contro il Manchester City in Champions League.
“Quando ho segnato neanche sembravo io, ho fatto uno scatto di 30-40 metri. Sembrava avessi 20 anni, invece ne avevo 38. Oltre a essere bello, è stato difficile. E’ stata bella anche l’azione, come è nata: con tre tocchi siamo arrivati in area. Io che andavo in profondità non era mai successo, di solito ero io a mandare in profondità. In quel periodo stavo bene fisicamente. In questa partita ancora non avevamo mai perso, sia in campionato sia in Champions League, e abbiamo allungato la striscia. Contro il City, c’erano grandi giocatori. Anche la nostra era una gran bella squadra”.

Da punta i suoi numeri sono esplosi: ha mai pensato che se avesse fatto prima quel cambio avrebbe fatto una carriera superiore.
“Con i se e con i ma siamo tutti molto più bravi. Inizialmente mi piaceva più fare assist che gol, poi andando avanti ho capito che oltre agli assist i gol erano leggermente più importanti. Da trequartista, però, il mio ruolo era più quello di mettere in condizione gli attaccanti di fare gol. Per casualità, poi, mister Spalletti mi ha messo falso nueve, perché a Genova contro la Sampdoria non avevamo attaccanti. Ho fatto gol e da lì in avanti non ha cambiato più modulo”. In che cosa è stato diverso nelle tre epoche in cui ha giocato? “In questi 25 anni di carriera non è mai semplice mantenersi e stare sugli stessi livelli, ma man mano che andavo avanti prendevo più forza e fiducia. Credevo tanto in me stesso, così riesci a dare e diventare qualcosa di diverso dagli altri. La convinzione, la voglia e la determinazione hanno fatto la differenza. Da capitano, poi, dovevi dare sempre qualcosa in più, la gente si aspettava tanto da me. Andando avanti mi divertivo ancora di più, per questo ho detto ‘mi dispiace lasciare, ancora mi diverto’”.

I due attaccanti più forti con cui ha giocato?
“Cassano, che non era una prima punta, anche se con Capello giocavamo entrambi insieme e facevamo quello che volevamo. Come prima punta, ma neanche, Salah. Era quel giocatore che per me, per come giocavo io, era perfetto. Non ci siamo gustati più di tanto, io ero alla fine della carriera e lui stava esplodendo anno dopo anno. Se ci fossimo incontrati a metà strada… era un giocatore perfetto per me, andava sempre in profondità. Certo, segnava solo lui: io non lo riprendevo a correre”.

Sul murale-santino.
“Non giro tanto a Roma, non lo avevo mai visto. Mi riconosco sempre. L’affetto della gente di gratifica, dall’altro lato non è bellissimo perché nella vita privata non hai la possibilità di fare niente. La cosa più strana che mi è successa? Tante. La gente si ferma e mi bacia le scarpe, i piedi: una cosa da pazzi. Io non lo farei mai, può essere che sono anche sporche. Mi è capitato più di una volta. Anche in carcere, quell’aneddoto: dovevamo andare a trovare i detenuti sia a Regina Coeli sia a San Basilio, c’era un ragazzo che una settimana prima doveva uscire ma ha saputo che noi della Roma saremmo andati lì a salutarli e a portargli qualche dono. E’ andato in segreteria e ha chiesto di rimanere una settimana in più per conoscere me. Non pensavo fosse vero, poi il direttore me lo ha detto. Aveva detto che se lo avessero fatto uscire, il giorno seguente sarebbe tornato”.

Ha mai pensato che tutto questo era troppo e sarebbe dovuto andare via?
“Via dove? Un’altra città? Alcune volte mi viene da pensarlo, ma non posso mai lasciare questa città. Ormai mi identifico nella città, ci sono cresciuto e morirò qui, come è giusto che sia. Totti è Roma grazie ai tifosi, che mi fanno sentire importante”.

Sull’addio al calcio e sull’Olimpico in lacrime.
“Non ho mai visto Francesco piangere tutti quei giorni, nessuno mi ha visto, pensando a questo giorno. Prima, durante, dopo. Non è finita lì. Alcune volte dovevo un po’ fingere. E’ stato un giorno da una parte bellissimo, che penso ogni giocatore voglia vivere: tu con 80-100mila persone che stanno lì per te e piangono per te, applaudono per tutte le cose che hai fatto. Allo stesso tempo, però, era un punto, la fine di tutto. Lì per lì pensavo non potesse succedere, speravo che quel giorno non arrivasse mai. Per tutte le cose c’è un inizio e una fine, ma è stata una giornata difficile da descrivere. Fare il giro di campo e vedere tutti piangere… ero contento, ma amareggiato perché già dal giorno dopo non sarebbe più successo. Per me il rettangolo verde è stato il mio pane quotidiano, il mio divertimento e la mia passione. Quello che ero e sentivo io lo trasmettevo nel prato verde, per far contenta la gente. Mi esprimevo in campo, per me era la cosa più facile e significativa. Era il campo a dare risposte, non le chiacchiere. Ogni tanto mi torna un po’ di paura, noi calciatori siamo abituati a essere abitudinari e ad avere tutto programmato. Staccandoti dal ‘cordone ombelicale’ devi vivere, non sapevo che cosa volessi fare dopo. Non era una cosa voluta, è arrivato all’improvviso e per me è stata una bastonata pesantissima. Ma era anche giusto che arrivasse. L’avrei vissuta diversamente, l’avrei ammorbidito. Non mi aspettavo una cosa del genere, soprattutto il modo è stato inaspettato. Inizialmente mi hanno detto una cosa, poi è stato il contrario. Ma non ne voglio parlare, non voglio vivere di rimpianti o rimorsi. Per me è stata una giornata indimenticabile, non avrebbe avuto senso fare una partita d’addio”.

Sembrava potesse tornare a giocare.
“C’è stato un incontro con alcune persone dell’ambito calcistico, ho giocato con questo giocatore e scherzosamente mi ha chiesto ‘perché non ci vieni a dare una mano?. Se ti allenassi 3-4 mesi, potresti fare questa pazzia’. Mi ha fatto scattare qualcosa, ho ricominciato ad allenarmi e fondamentalmente mi sentivo bene. Il fisico reagiva davvero come se avessi avuto 30-33 anni. Ci ho parlato, gli ho detto che non stavo male ma mi sarebbe servito un altro mesetto buono. ‘Io ti aspetto, fammi sapere così facciamo un incontro con chi di dovere’, è stata la risposta. Poi mi sono fermato e ho detto ‘Non sono andato in altre squadre quando potevo, ora ricominciare dopo 7 anni per fare 6 mesi in un’altra squadra non mi sembra corretto’. Ritrovare quello che abbiamo fatto in pochi, rimanere con un’unica maglia, penso non ci riescano altri giocatori. Ho pensato, ho chiesto consigli a 2-3 persone, e ho deciso di continuare a mantenere quel rispetto. Sarebbe stata una cosa diversa, impensabile. Per quello che c’è in giro adesso, figuracce non ne avrei fatte. Avrei anche potuto aiutare i giovani. Non dico la squadra per rispetto dell’allenatore e del club. Se c’è ancora possibilità? No dai, basta, diventerei patetico…Certo, se dovesse chiamare la Roma ci penserei…(ride, ndr)”.

 

L’articolo TOTTI: “Compagni, rivali e quel rigore che ha segnato la storia del Mondiale. Ritorno in campo? Non avrei fatto figuracce, ma poi…” (VIDEO) proviene da Giallorossi.net, notizie esclusive, news e calciomercato.

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